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Le ricette non esistono

Lenta, resistente, antica: la cucina ladina

Pubblicato il 30.05.2025

Sono cose passate, non dimenticate. La signora Tecla della Ciasa Urban a Badia se lo ricorda bene quando era piccola che, con tutta la sua famiglia e insieme ai vicini di casa, c’era un giorno in cui faceva il pane. Uno solo, giorno e notte. Se ne impastava tantissimo, perché doveva bastare, e poi si faceva seccare così durava tutto l’anno successivo, e si poteva mangiare ammorbidito con il latte o con l’acqua o quel che c’era. Sono trascorsi solo alcuni decenni da quando in Alta Badia il pane si faceva così, Tecla se lo ricorda bene, ma sembrano secoli perché in pochi anni è cambiato tutto molto velocemente.

Invece la cucina ladina è lenta, resistente e ha un sapore antico.

Per Tecla, sono cose normali e si schernisce quando le chiedo di raccontarmi della cucina ladina o darmi le ricette. Le ricette non esistono – si fa come facevano le nonne – e la cucina ladina, per lei, è quella della sua infanzia, che ha il sapore del succo di ribes fresco bevuto in estate. Stessa cosa succede poco più in là, al Maso Runch, dove entro in cucina proprio mentre la famiglia di Enrico Nagler è intenta a chiudere a mano, uno per uno, i “cajinci”, panzerotti a forma di mezzaluna fatti con farina e patate e ripieni di spinaci. È la cucina di casa, mi dicono, come se fosse strano dover raccontare, a me, la straordinarietà di qualcosa che per loro è consuetudine. Mi spiegano però, con molta serietà, che le “tutres”, le frittelle sottili e tonde di pasta sfoglia sottilissima farcite con erbe o patate o crauti o un velo di ricotta, vanno mangiate calde, tenute in una mano mentre nell’altra si tiene il cucchiaio per sorbire, sorso dopo sorso, la “panicia” d’orzo. Un morso alla frittella. E una cucchiaiata di minestra. Così si fa.

Quello che ho capito è che non è che esiste una univoca cucina ladina, ma ogni valle ha le sue espressioni e piccole differenze; come la lingua, succede così; e, salvo un breve elenco di piatti, la cucina ladina è più che altro è un modo di cucinare. Un atteggiamento. Una cucina poverissima ma di sostanza, la definiscono, perché la fatica scandiva le giornate e il cibo era il nutrimento.

Le “tutres”, per esempio, si cucinavano il sabato. Perché per prepararle bisognava metterci tanto tempo. E se ne preparava sempre qualcuna in più, così se avanzavano si potevano mangiare il giorno dopo, la domenica.

Il tempo è un ingrediente fondamentale della cucina ladina, perché ne serve tanto. Ce n’era in abbondanza a disposizione e gratis. Ciò che mancava invece era tutto il resto. Difatti, gli ingredienti delle ricette tradizionali di cucina ladina si contano sulle dita di una mano o poco più: farina, burro, orzo, patate, erbe. L’orzo perché è il cereale che riesce a maturare più in fretta, anche con poco sole; e pur di fare la farina per impastare, si macinavano le carrube o le fave essiccate. E si mangiavano i papaveri, e con i semi si addolcivano le frittelle.

Al di là della lista dei piatti o degli ingredienti, capisci di stare mangiando cucina ladina ogni volta che ti trovi davanti a un sapore antico, semplice, ingegnoso, che schiude un universo fatto di storie di fatica e incanto, di rituali semplici e potenti, di condivisione e natura. Una cucina lontanissima nel tempo ma vicina nel sentire, perché è la cucina del non sprecare, della circolarità, della pianificazione in anticipo, degli ingredienti di riserva, del risparmio intelligente, dell’elegante economia.

Perché piace così tanto, chiedo ad Antonio, detto Tone, che nel suo maso Alfarëi ospita sempre tanti turisti per far provare la cucina ladina: non lo sa, però pensa che sia perché è semplice e naturale.

E lo è. Ancestrale, perché non contaminata.

La strada della Val Badia è stata inaugurata nel 1892. Prima di allora, per andare da Brunico a Corvara, un tragitto di meno di trenta chilometri, si impiegavano dieci ore. Non c’era alcun motivo di venire in valle. I primi visitatori furono inglesi e tedeschi, che venivano guardati con curiosità. I primi frequentatori delle Dolomiti erano geologi, considerati eccentrici perché scambiavano denaro per pietre, che acquistavano con grande interesse. Non c’era ancora uno sviluppo turistico in valle. E così è stato fino al Secondo dopoguerra. Negli anni Settanta iniziò l’abbandono dei mestieri tradizionali, poiché il settore turistico offriva nuove opportunità di lavoro. Cresceva il desiderio di una vita moderna. E con essa, anche di cibi moderni.

L’isolamento della cucina ha permesso di non essere influenzata, restare autentica e antica. Con grande fatica. La cucina è un insieme di territorio, clima, uomini e donne. Soprattutto è il risultato delle invenzioni e le esperienze che, in quel territorio e con quel clima, gli uomini e le donne hanno fatto, spesso a loro spese.

Come nel caso delle patate, che in lingua ladina si chiamano “soni” o “sansoni”. E il motivo è una storia che merita di essere raccontata, perché è cominciata l’anno senza estate. Così fu chiamato il 1816 perché il sole non sorse e non scaldò per tutta l’estate. O meglio, tempo dopo, si seppe che la causa fu l’eruzione di un vulcano in Indonesia, violentissima al punto che le ceneri oscurarono anche i cieli dell’Europa. Quell’anno, per cercare di salvare più persone possibili dalla fame, arrivarono dalla Sassonia grandi quantità di patate, che in valle non si erano mai viste e non si sapeva come fare per mangiarle o cucinarle. Crude? Cotte? “Soni” o “sansoni”, suona come sassoni, no? Lingua e cibo sono sempre collegate da una storia.

La cucina ladina è un approccio femminile e alchemico, che nutre e ispira, trasforma pochi e semplici ingredienti in elaborazioni complesse e sostanziose, riproduce e cura, esprime generosità e partecipazione, creatività mentale e manuale. Agisce con senso di responsabilità verso gli altri, rispetto per le risorse e verso le generazioni future. Conosce le erbe di campo, e le usa per la cura, per le tisane, le creme e gli sciroppi. Interpreta la luna e le stelle.

Prima di terminare il mio viaggio gastronomico, mi fermo all’Istitut Ladin Micurá de Rü, che si occupa della tutela e della promozione della lingua ladina, con l'obiettivo di conservarne l'uso sia scritto che parlato. Per lungo tempo, il ladino è stato esclusivamente una lingua orale, senza una necessità concreta di essere scritto. Oggi, però, si avverte un forte bisogno di creare nuove parole e neologismi per descrivere la realtà contemporanea, poiché il lessico tradizionale, legato alla vita contadina, risulta spesso insufficiente. Le parole ladine possono essere paragonate alla cucina: poche, semplici, legate alla tradizione e alla quotidianità della vita rurale. Forse è proprio questa forte componente orale che le rende immortali. Scrivere fissa il linguaggio, mentre la lingua, come la cucina, è in continua evoluzione e riesce così ad adattarsi ai tempi moderni. Essendo una lingua antica, nata nel mondo contadino, il ladino dispone di un lessico ricco per descrivere un universo che oggi, in parte, non esiste più. Alcune parole sono cadute in disuso, mentre altre devono essere reinventate per mantenere viva la lingua e la cultura ladina.

La cucina è un linguaggio universale, che non ha bisogno di esprimersi a parole, per me che sono una gastronoma è la cucina che segna l’identità di un popolo. Per un lessicografo, invece, è la lingua che determina una comunità. Eppure la cucina, così come la lingua, cambia di valle in valle, di casa in casa, di famiglia in famiglia. Pur mantenendosi fedele a se stessa. Però, la cucina – come dice l’antropologo Franco La Cecla – è la soglia più accessibile di ogni cultura. E si fa prima ad avvicinarsi a un piatto tipico che a imparare la lingua ladina. Questo vale per me, che per le lingue sono negata, ma il cibo lo capisco quando mi parla. E lo capiscono anche qua. Perciò, quando assaggio un pane di farina di segale, quando sento sfrigolare il burro caldo sui canederli, quando vedo sfaldarsi dalla tenerezza una carne cotta ore e ore sprigionare profumi di spezie e erbe di montagna, quando mi perdo nelle infinite sfumature di una frittella di mele, io capisco precisamente cos’è e perché esiste, e resiste, la cucina ladina.

Giornalista, scrittrice e gourmet, Martina Liverani si interessa di generi alimentari e generi umani. Nel 2013 ha fondato la rivista Dispensa, che nel 2017 ha vinto il “Gourmand World Cookbooks Award” come miglior rivista di cucina italiana e seconda a livello mondiale. Scrive di cucina per La Repubblica, Vogue Italia, Monocle, Vanity Fair, Identità Golose, La Cucina Italiana e altre riviste. È autrice dei libri Manuale di cucina sentimentale (Baldini&Castoldi, 2013) e Atlante di Geogastronomia (Rizzoli, 2020).

L' Alta Badia ha molto da raccontare
La lingua ladina

Un patrimonio culturale

Verena Spechtenhauser
SMACH

Cultura secondo Natura

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La Croda Rossa

Leggende da leggere

Karl Felix Wolff
Illustrazione Silvia Baccanti
Colori, astrazioni, legami

Un racconto fotografico sull’Alta Badia, parole e foto di Omar Sartor

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